La Sora Rina

La Sora Rina

di TOMMASO VERGA

“DOMANI ANDIAMO a Palombara”. “Nonna, che è Palombara?”. “Lo vedrai, alzati, vestiti subito, ci dobbiamo sbrigare se vogliamo prendere la corriera a Castro Pretorio”. “Ma la scuola…”. “Tranquillo co’ tu’ madre ci penso io”. Fu una gita imprevista verso una misteriosa Palombara, che portò l’adorante nipotino, 6 anni, prima elementare, a conoscere la guerra di Liberazione (“non è stata una guerra civile come tanti vogliono far credere contrabbandando la genesi e la Storia”). Storia che in punta di penna va raccontata quella della Sora Rina (Erina), per non smarrire il ricordo di lei e la forza dell’insegnamento di una donna “normale” certamente non ai suoi tempi, che il 25 aprile di 70 anni fa festeggiò con pieno diritto e legittimità il ritorno a un’Italia che anche lei aveva liberato. Non la sola.

Vita intensa e avventurosa quella della Sora Rina, persona mai doma, anticonformista, comunista da ben prima dell’8 settembre – chissà se fosse vero, come diceva, di aver partecipato alla fondazione del Pcd’i a Livorno, nel 1921 –, Sora Rina, iscritta al Pci clandestino, la lotta contro il fascismo e i nazisti l’aveva fatta con la Resistenza romana e sulle montagne (“il mitra pesava, accidenti se pesava”). Sposata a un nobile toscano – la villa si distingue tuttora sulle colline di Fiesole – che l’abbandonò dopo 6 gravidanze e 3 aborti, due fratelli partigiani anch’essi – il maggiore fuggì in America, l’altro perse un occhio in uno scontro con la banda di Ettore Muti – indifferente alle convenzioni, sul calessino a cavallo girava Roma, il volto celato dalla veletta.

Né rinunciava alle sue abitudini e/o piaceri. Diretta all’osteria dei tre scalini in via Giovanni Lanza (a Roma, salire o scendere, i tre scalini dei ristoranti messi insieme arriverebbero sopra il Cupolone), Sora Rina ogni pomeriggio prendeva per mano il ragazzino e lo portava ad assistere alle sue partite di briscola e tressette, in palio mezzo litro e una gazzosa (per un romano “gassosa” è pari a una bestemmia), in regalo per il piccolo la biglia di vetro sotto il tappo delle bottigliette. Nessuno scrupolo, nessuna remora a competere con tre uomini seduti ai lati del tavolo.

La lapide

La lapide

“Nonna, ma se perdo la scuola rischio di non avere bei voti, e tu e mamma v’arrabbiate”. Sardonica la replica: “Sì, e non fai il saggio di fine anno, ah, ah, ah”. Il bambino rimaneva male, le canzoncine, la recita. Salvo apprendere il motivo, ma dopo molti anni: “E’ una stronzata ereditata dal fascismo”. Perché? “A quel tempo ricordo il saggio delle “figlie della Lupa”, in Campidoglio, la cerimonia di fine anno scolastico che obbligava a partecipare, scolare o studentesse, tutte, anche tua madre e le sue sorelle. Io non ci sono mai andata, non ho mai assistito. A me quella cosa delle “figlie della Lupa” faceva proprio schifo… “Figlie della Lupa”? Se il “mascellone” voleva delle figlie doveva partorirle lui, altro che Lupa, i figli costano dolore e sacrifici, lui ce li toglieva per indottrinarli, gli serviva carne da macello per la sua dittatura e difendere una patria inesistente”. “Nonna, a scuola la maestra ha detto che gli zingari rubano i bambini”. “Sì, e i comunisti se li mangiano”.

L’avventura verso Palombara iniziò di mattina presto, usciti dal 66 di via San Martino ai Monti, un salto al bar della sora Mafalda – cappuccino per lei, latte e cornetto per il nipotino – il saluto di prammatica al sor Aristide (Ponzi), pittore di insegne commerciali, su tavole di legno oppure di compensato appoggiate fuori dalla bottega –, e via, a piedi verso Castro Pretorio. Quindi la corriera. Al ragazzino fece impressione quel veicolo enorme, vi saliva la prima volta, i sedili quasi tutti sfondati, i finestrini bloccati, i bagagli dei passeggeri legati sul tetto. Alla partenza, il rilascio fu sia un fracasso rimbombante che una coltre nera di fumo. Tutto replicato ad ogni fermata. Fino al capolinea, che il bambino d’allora ormai anziano, vagamente rammenta nello stesso punto odierno.

La “visita” in realtà si mostrò una rimpatriata. Inattesa ma gioiosa. Fuori d’ogni uscio, dalle sedie sulle stradine del paese, le donne appena scorsero Sora Rina si alzarono festose, baci e abbracci come a celebrare una parente ritrovata. Lasciati da parte i ferri per la lana o gli aghi del rammendo (di una quantità incredibile di calzini, mutande e maglie di sotto), ogni porta si apriva per accogliere la nonna. E dolcetti, caffè, vino, pane e… Con l’aggiunta d’ogni ben di dio da portare a Roma. Da non si sa dove sbucarono fuori due capienti sporte, riempite in men che non si dica. Immaginare lo stupore del nipotino nel constatare che a Palombara Sabina tutti, ma proprio tutti, conoscevano nonna Rina.

Sulla via del ritorno, seduti nella corriera (“tieni strette le sporte se vuoi ritrovare quello che c’è dentro”), iniziò il rito dei perché. Che venne celebrato solo in parte e nella sostanza fu più che vago. “Non hai l’età, poi nonna te lo racconta, a suo tempo, quello giusto”.

Che naturalmente venne alcuni non pochi anni dopo. Il “tempo giusto” comprendeva la narrazione della guerra di Liberazione, l’alleanza tra Hitler e i fascisti, le persecuzioni contro gli ebrei, i comunisti, i “diversi”, le gesta dei partigiani, il suo ruolo di staffetta (“Ma quache volta anche combattente”) tra la Resistenza romana e le brigate sui monti Lucretili, Palombara (“Il paese di Mario Pochetti”) al centro, con qualche sforamento su quelli Tiburtini (“Anche se lì ci furono cose poco simpatiche, qualcuna anche terribile, preferisco non parlarne”). Tutto assolto pedalando su una bicicletta.

I racconti si concludevano con una raccomandazione, la stessa, sempre, per decenni, fino alla sua scomparsa: “Leggi l’Unità, il giornale dei lavoratori”. Sora Rina non ne perse mai un’edizione.