(t.ve.) DA UNA PARTE i genitori, non tutti dai toni alquanto no-vax («rivendichiamo la libertà di decidere per i nostri figli»); da un’altra il sindaco che assiste in apparente neutralità (meno implicita nella sottoscrizione di accordi similsindacali con l’azienda) schierato contro i dirigenti della pubblica istruzione cittadina. I quali hanno deciso, unanimi, nove scuole su 9, di vietare l’ingresso negli istituti ai cibi domestici.
Il brontolio dei genitori di questi giorni è il prolungamento della battaglia iniziata l’anno scorso. Identico il quesito: quale desinare consumeranno i bambini tra due settimane (circa) nelle mense di Guidonia Montecelio?
Con una differenza, sostanziale, rispetto al 2018, variazione che modifica in radice i contenuti di quella che si potrebbe definire una vertenza: la sentenza della Corte di cassazione del 30 giugno su ricorso del Comune di Torino. Pronunciamento che però, a dire il vero, non rende più semplice l’assegnazione della ragione a una qualsiasi delle parti in contesa.
Perché se è vero che la Suprema corte, a sezioni unite, ha sentenziato il divieto di portare il panino da casa (ribaltando una precedente pronuncia del Consiglio di Stato) l’aggiunta della condizione relativa al «diritto soggettivo» corredata da una serie di precisazioni – la principale: i dirigenti scolastici debbono verificare tutte le condizioni organizzative perché i diritti dei due soggetti possano convivere – colloca la controversia nel faldone del «non si può però vale anche il contrario». Ricorrendo al Tar (Tribunale amministrativo regionale) come appunto già avvenuto in varie parti d’Italia.
Alternative? Iscriversi alla mensa, oppure – così funziona a Villa Adriana –, prelevare i bambini all’ora di pranzo, portarli a casa e dopo un’ora riconsegnarli alla scuola.

Michel Barbet, sindaco di Guidonia Montecelio, insieme con l’assessora alla Pubblica istruzione Elisa Strani

In tutto questo «tessi e scuci» un unico soggetto rischia seriamente di rimanere tagliato fuori e dover così vedersi privato di qualsiasi diritto, i lavoratori della «Bioristoro Italia», la srl appaltatrice delle mense. Che sono 15, per un’occupazione di un centinaio di addetti.
Si parla di lavoratrici, donne in larga misura, che risentono pesantemente delle modifiche all’organizzazione del lavoro. Specie se dovute, come in questo caso, a fattori extraziendali. Per un nastro di 10 mensilità annuali. Sbaglia chi assimilasse la durata a quella di insegnanti e personale non docente. Semplicemente non si è retribuite.
Tre ore e mezzo l’orario contrattuale di lavoro quotidiano, ridotto di 30 minuti giornalieri un anno fa, in «virtù» di un accordo sottoscritto in Comune tra azienda e sindaco-sindacalista. Un compromesso par di capire a fronte dei 30 licenziamenti minacciati dalla società, una sorta di «contratto di solidarietà». Prevista non soltanto la riduzione dell’orario (e del salario) ma anche l’aggiunta di mansioni come la pulizia post-refezione delle postazioni occupate dai pasti da casa.
Tutto ciò per un salario netto che fatica a raggiungere 500 euro al mese. A fronte di un costo massimo del servizio per l’utenza di 900 euro/mese per un Isee familiare di 60mila euro annui.
Quest’anno, a far data 9 settembre, gli iscritti alle mense di Guidonia Montecelio raggiungono il numero di 1.532 bambini. Che potrebbe salire in virtù della riapertura dei termini di iscrizione al servizio. E per l’incitamento delle lavoratrici.