di TOMMASO VERGA
L’articolo sottostante, lo schema con tutte le caselle sistemate secondo le contrattazioni della vigilia e riempite dai nomi predeterminati (24) e dall’ordine delle preferenze, è di una crudeltà assoluta: nella nuova Città metropolitana di Roma lo “spicchio” est della provincia non c’è, non è rappresentato, città come Tivoli, Guidonia Montecelio, Fonte Nuova, Mentana (per non dire di tutta la Valle dell’Aniene o della Sabina) è come non esistessero. Non un fatto ‘geografico’ o esclusivamente ‘politico’, ma un effetto che potrebbe avere esiti devastanti sulle condizioni di vita delle popolazioni locali.
Perché la Città metropolitana è chiamata a governare (ovvero: deliberare su) gangli determinanti della struttura provinciale: assetto del territorio, pianificazione urbanistica, viabilità e trasporti, rifiuti,

Ignazio Marino, sindaco di Roma Città metropolitana, e Mirko Coratti, primo eletto dei 24 consiglieri

la rete dei servizi, ossia capitoli che segnano il ‘volto’ delle città, quello che in altri tempi si sarebbe detto ‘modello di sviluppo’.
La pregressa storia non depone a favore di un disinteresse per l’argomento, visto che – specie per quest’area – il comportamento di Roma è sempre stato quello della ‘matrigna’, con un uso disinvolto del territorio provinciale, un’area di servizio più che di relazioni articolate vantaggiose per entrambi gli enti.

Lo “spacchettamento” proposto da Prodi e il voto mancato dei cittadini
Negli antefatti della legge istitutiva – la prima proposta in tal senso risale a Franca Prisco, ancora parlamentare del Pci – sono state molti e a volte diametralmente opposti i ‘ragionamenti’ non tanto sugli scopi del nuovo ente quanto sulle modalità di elezione della struttura esecutiva. Una per tutte. Nel ‘modello’ proposto dal governo Prodi si prevedeva lo ‘spacchettamento’ delle città capoluogo. In pratica, secondo quella formula, Roma sarebbe stata divisa per 19, tanti quanti sono i municipi capitolini, con un rapporto popolazione-eletti diverso da quanto è stato. Formula del tutto capovolta dai governi Monti, Letta, Renzi con la regia del sottosegretario Del Rio.
Un esito elettorale che, con molta probabilità, sarebbe cambiato se invece dei consiglieri comunali avessero votato i cittadini. Forse il Pd non sarebbe risultato così egemone, forse i più ‘piccoli’ avrebbero avuto qualche rappresentante in più. Ma non è quel che interessa, quanto il fatto che si sarebbe avuto un risultato più confacente agli equilibri territoriali e meno a quello tra i partiti. Senza dimenticare cosa e quanto il voto diretto rappresenta per la democrazia. Almeno secondo la nostra Costituzione.

Unione dei comuni e responsabilità dell’insuccesso: tutte di partiti e governanti locali
Ciò premesso, si torna alla ‘casella’ di partenza. Il comprensorio provinciale a est assente negli organismi. Qui bisogna tirare in ballo partiti e governanti locali. I responsabili veri dell’accaduto. Perché nessuno ha cercato nessuno, l’altro Comune, per colloquiare, contrattare, discutere, provare a ragionare sugli effetti che un risultato come quello che è stato arreca alle città amministrate e al bacino tiburtino-nomentano nell’insieme.
In verità, una pratica non nuova, anzi. Il dialogo tra muti e sordi è storia di un territorio sempre

Bruno Astorre

arroccato su antichi campanilismi.
L’opposto esempio. A fine agosto, il 27, si sono riuniti i Comuni dei Castelli. La proposta del ‘convocante’ Bruno Astorre è passata senza particolari difficoltà. La Comunità montana dei Prenestini è diventata Unione dei comuni, altrettanto hanno deciso gli enti locali non presenti nell’ente. Conclusione: nella Città metropolitana di Roma quella porzione di territorio provinciale si presenta con un potere contrattuale non difficile da immaginare. Anche ai Castelli Romani le amministrazioni comunali sono variopinte…
Si poteva tentare anche qui? Certamente. La ‘città lineare’ Subiaco-Monterotondo possiede tutte le caratteristiche per formare una Unione dei comuni (che avrebbe un secondo compito, ‘nobile’, da assolvere: combattere il ‘rischio estinzione’ – certificato – di una trentina di paesi circonvicini). Ma per gli amministratori di Tivoli e Guidonia Montecelio, del Giovenzano o della Sabina l’argomento è tabù.
Per dire, si pensi ai rifiuti, ognuno fa per sé. Con le relative conseguenze sui bilanci e sui tributi.

Franca Prisco

L’Unione dei comuni potrebbe decidere che il servizio diventa comprensoriale, svolto da un’unica azienda: costi più bassi, efficienza, utilità marginali, rispetto dell’ambiente. Tutti i cittadini ne guadagnerebbero. Alternative? Al singolare. Una sola: la Città metropolitana delibera che il compito dev’essere svolto dall’Ama. Effetti benefici, ma sul bilancio del Campidoglio.
Fantapolitica? Mica tanto. Eligio Rubeis dice che il suo Comune vuole insediare la logistica all’uscita del casello autostradale, dimenticando che – lui assessore, Sassano sindaco – ha deliberato il Pruust (tuttora vigente), quindi che la logistica deve andare al Barco sui 65 ettari della ex-Stacchini, recentemente acquistati dopo il fallimento dell’”Interporto Roma Est”. Avremo due piattaforme logistiche distanti qualche centinaio di metri? par condicio: a Tivoli, un sindaco “importante” di centrosinistra sosteneva che ospedale e tribunale sono servizi cittadini, non territoriali. Ha fatto carriera.
Premesse che influenzano anche la politica ‘spicciola’. Chissà se con l’Unione dei comuni sarebbe naufragata la candidatura del sindaco di Guidonia Montecelio.