Il complesso delle Acque Albule

Il complesso delle Acque Albule

di TOMMASO VERGA

LA NARRAZIONE era andata in pausa al momento della tra le parti concordata nomina della commissione di tre saggi – in realtà sono due, l’ex sindaco di Tivoli Alcibiade Boratto, e Paolo Cacurri, amministratore unico di “Asa servizi”; il terzo, quello aziendale, non è stato mai designato –. Si parla del “racconto” fornito dall’informazione, conseguente agli avvenimenti succedutisi dopo la decisione di interamente privatizzare la spa “Terme Acque Albule” da parte del Comune di Tivoli, azionista al 60 per cento. L’altro 40 è nella cassaforte della “Fincres spa” attraverso la “Sirio Hotel”, entrambe di Bartolomeo Terranova. Un’intenzione diventata concreta nel Consiglio comunale del 26 febbraio scorso.

L’esposizione riprende da quella data. Per narrare che non c’è niente da aggiungere, salvo il fatto che la trattativa tra i due soggetti, pubblico e privato, è saltata. Se definitivamente o meno si vedrà. Risultato che propone al titolo scelto per sintetizzare l’operazione il significato proprio: spin-off: un film, una fiction televisiva, un fumetto, un romanzo o un videogioco…”; in alternativa, il diritto societario (ormai un auspicio): una unità organizzativa (per esempio un ufficio o una divisione) che faceva parte in origine di una certa società, ma che è adesso indipendente”.

Bartolomeo Terranova

Bartolomeo Terranova

Sarcasmo? Il fatto è che di sarcasmo si potrebbe abbondare, tutta l’intera vicenda si presta. Storicamente. Chi ricorda lo start up della privatizzazione? A cominciare dalla retromarcia di Marco Vincenzi sindaco del 2001 che intendeva liquidare l’intero pacchetto azionario e che dovette retrocedere per l’opposizione manifestatasi nella maggioranza a Tivoli, quella di Rifondazione comunista, che minacciò la crisi della coalizione. Di seguito le trattative e la mediazione politica con il parto del 60/40. A leggere manifesti apparsi dopo l’annuncio del 26 febbraio (strepitoso quello di Forza Italia che all’inizio del secolo votò contro perché voleva si mettesse sul mercato l’intero patrimonio), a interpretare alcune intemerate, si direbbe che tre lustri abbiano cancellato ogni memoria, compresa quella del Pd, degli eredi-seguaci – in senso stretto, con qualche accenno maoista – del sindaco (semi)privatizzatore.

Comunque… Il fatto è che, oggi, la sempre utile ironia invece non premia, lo stato dell’arte è, approssimativamente, quello descritto, e il ritorno alla casella di partenza rende l’affare molto, molto complicato (si vedrà se la giunta lo confermerà nei prossimi atti). Perché a fallire è il piano al quale pressoché esclusivamente si puntava, la meno complicata e rischiosa tra le soluzioni previste dal codice: divisione delle quote del capitale sociale tra l’azionista privato e quello pubblico, un contratto di separazione, consensuale e temporaneo, premessa al definitivo divorzio tra i due soggetti. Perché, in successione, il Comune avrebbe riacquistato le azioni di Terranova, liquidandolo con beni immobiliari equivalenti al valore della dismissione. Il “pacchetto” comprendeva la rinuncia al contenzioso legale tra il capo della “Fincres” e l’ente locale, con il ritiro di tutte le cause giudiziarie intentate dal primo contro il Comune di Tivoli. Dopodiché la parte di quest’ultimo sarebbe stata offerta sul mercato. Tutti tasselli d’una avanzata trattativa apparsa reciprocamente conveniente.

Non è stato così. Visto che le conclusioni dei due “saggi” avrebbero rivelato un ben diverso interesse di Terranova sullo “spacchettamento” della società, sino al punto di rovesciare, letteralmente, l’impostazione di avvio: a me le piscine, l’hotel Vittoria, il palazzo di via Nicodemi dove a Bagni di Tivoli ha sede l’agenzia delle entrate, prendetevi pure gli appartamenti di piazza Catullo e il “fungo paninaro”. Con una coda relativa al conguaglio risultante dalla divisione del valore periziato e sottratti i debiti pregressi.

Giuseppe Proietti

Giuseppe Proietti

Quindi l’affare è finito su un binario morto. Anche effetto delle debolezze che presentava già in fase preliminare. Iniziando dall’azienda qualificata “partecipata” dal Comune di Tivoli. Ineccepibile sotto il profilo giuridico, meno, assai meno, sotto quello a/effettivo. Tanto che si direbbe la ragione debba essere cercata esclusivamente nei fini in voga di questi tempi. Una “denominazione” risultata controversa. Comunque nell’idem sentire. Aspetti politico-sentimentali che però diventano recriminazione. Perché, nella mozione della maggioranza che sostiene il sindaco Giuseppe Proietti, esplicitamente si afferma che l’ente locale “ha la necessità di dismettere la partecipazione del 60% in Acque Albule ai sensi dell’at. 1, comma 569 della legge di stabilità 2014”. Non una dichiarazione d’intenti, un’affermazione “politica”, ma la necessità di perseguire un obiettivo. Il che rafforzerebbe qualsiasi interlocutore-controparte: “Se sei obbligato a vendere il prezzo lo stabilisco io” (en passant, alle “partecipate” dedica un apposito allegato la proposta di legge sulle deleghe alle Province del Lazio e alla Città metropolitana di Roma approvata dalla giunta di Nicola Zingaretti e attualmente in discussione nella commissione affari istituzionali della Pisana. E’ prematuro giudicare cosa risulterà al termine del dibattito consiliare ma la prima sensazione è che si tratti di una vera e propria controriforma con un ulteriore accentramento dei poteri nella Regione. Ovvia l’applicazione tout-court della legge nazionale sulle “partecipate”).

Paolo Cacurri

Paolo Cacurri

Un comportamento singolare quello dell’amministrazione e del primo cittadino. Il quale, anziché coinvolgere Tivoli in una decisione che modifica il modo stesso di pensare dei suoi amministrati (le Acque Albule sono un “bene comune”), il 26 febbraio ha presentato al Consiglio comunale un dossier nel quale sostanzialmente descrive cosa farà “con la massima urgenza”, nulla lasciando al confronto sulla opportunità o meno e alle possibili alternative praticabili. Che, senza escludere riflessioni sugli aspetti “ideologici” (l’attività sanitaria pubblica o privata?), anche grazie a un costo del lavoro abbattuto dai licenziamenti – erano 63 all’avvio della società mista; se ne prevedevano 120 nel 2006; sono 40 tra fissi e stagionali –, sarebbero dovute iniziare con l’analisi dei motivi della costante cessazione delle perdite di bilancio e della relativa necessità di immissione di capitale. Tradotto, sarebbe forse venuto meno il ricorso alla giustificazione governativa sulle “partecipate” da dismettere.

Non basta. Obbligato a rioccuparsi dei fatti della società, altre questioni, nodi comunque da sciogliere, riguardano la ristrutturazione della gestione aziendale, il patto parasociale, il controllo dell’attività. Fors’anche, verificando i presupposti, il ricorso ad azioni di responsabilità verso coloro che l’hanno preceduto. Tutto indirizzato a rafforzare le capacità e la presenza dell’ente nella sua azienda. Viceversa, andare in guerra contro l’Isis sventolando la colomba di Picasso conduce a perdere la testa.