di ENZO PAVONI
UNA DELLE ULTIME VOLTE CHE ABBIAMO APPRESO qualcosa d’interessante in senso antropologico riguardo il territorio della Valle dell’Aniene, se la memoria non c’inganna, risale almeno a una quarantina di anni fa, cioè alle “ricerche sul campo” condotte da Ambrogio Sparagna con il Circolo Gianni Bosio.
Di recente, grazie alla pubblicazione del CD-libro “Dejj’arbole”, un metodo d’indagine forse più empirico che razionale – ma di certo efficace – è stato avviato dal giovane Simone Saccucci, il quale rivela candidamente di non sentirsi né cantautore, né etnomusicologo, né menestrello/cantastorie. Possiamo tuttavia considerarlo un intrigante mix di quelle peculiarità.

Simone Saccucci; sopra, appuntamento in piazza, a Montecelio; a sinistra, il CD-libro “Dejj’arbole”

Il titolo “Dejj’arbole” significa “Dell’albero”, l’albero delle radici dell’autore, che fa sovente riferimento ai racconti dei nonni e dei genitori, partiti da lontano decenni orsono e stabilitisi a Villalba, un centro abitato costruito notte dopo notte senza regole, in maniera anarchica, confidando nella protezione dell’oscurità. Il mestiere che lì andava per la maggiore era quello del cavatore, un lavoro gravato ahimè da preoccupanti controindicazioni: umidità, silicosi, case che sprofondavano (sprofondano tuttora) per via dell’escavazione selvaggia del travertino e dell’acqua invasiva vagante nel sottosuolo.
Arriviamo dunque a “Dejj’arbole”, il disco-libro di Simone Saccucci che porta il marchio della certosina Squilibri (via di mezzo tra etichetta discografica e casa editrice), specializzata in operazioni del genere, dove interagiscono testi e note musicali, le qual ultime fanno da soundtrack, da contrappunto, da commento alla prosa. Ne scaturisce un terragno omaggio alla memoria, un ponte col passato prezioso per spiegare il presente e magari ipotizzare il futuro.
Dal punto di vista dialettico/testuale, assicura un sostegno autorevole Artemio Tacchia. Inoltre, la scaletta è impreziosita da tre poesie scritte e recitate da Erri De Luca: le classiche ciliegine sulla torta.
Apre il lavoro “La partenza”: qui l’artista si esprime a cappella seguendo l’atavico criterio del banditore, a cui ricorrevano fino a qualche decennio addietro i Comuni di diversi paesi della provincia per comunicare agli abitanti avvisi e disposizioni.
In “Argentina marchigiana”, incentrato sulla nonna, Saccucci continua la narrazione non smarrendo mai la sua lodevole stringatezza, sostenuto esclusivamente da un fascinoso armonium indiano, fonte di un evocativo pedale mono-tonale capace di incantare/ipnotizzare chiunque: è una filosofia estetica imparentata con il raga.
L’intero progetto è alimentato da una maniera intelligente e matura d’intendere la scarnificazione linguistica, una prassi rafforzata dalla consapevolezza dell’inutilità di riempire in eccesso i brani fino a occuparne ogni spazio, col rischio di soffocarne il respiro. Tale capacità di sintesi va a tutto vantaggio del pathos e del senso d’attesa (Monk approverebbe).
In alcuni episodi raccontati-suonati-cantati dal protagonista, sorprende il ruolo centrale assunto dal suono/rumore dell’acqua (pioggia, fiume, acqua sulfurea); per esempio, in “Ninna nanna”, “Non me ne curo e “Re Anio”. E qui vale la pena ricordare che il ricorso a noise e “disturbi” estrapolati dalla quotidianità è da parecchio tempo una consuetudine delle avanguardie, abituate poi per loro natura ad andare “oltre” manipolando e alterando i suoni/rumori originari. L’acqua scrosciante provvede ad assicurare la pulsazione vitale e il “ritmo cardiaco” necessari alle storie narrate, sopperendo ai battiti di una percussione e/o al manto armonico di una chitarra.

Artemio Tacchia

“Casa mea” snocciola i problemi e le ansie di un cavatore: guai polmonari, casa cedevole, ecc.
In “Ninna nanna” una cascata d’acqua sostiene il canto a cappella, scandito tipo work song.
Chiude “Re Anio”. Si riferisce all’Aniene e alla leggenda che l’accompagna: un flauto descrittivo e quasi impressionista dà la sensazione di essere “bagnato” dal crescente fluire del fiume, una escalation esponenziale sfociante in un fragore avvolgente, ipnotico, a tratti stordente.
Più o meno consciamente, il metodo seguito da Simone Saccucci deve molto alle seminali ricerche sul campo effettuate prima e dopo il secondo conflitto mondiale da consumati esperti quali l’etnomusicologo Alan Lomax (il folk americano, e non solo) e il compagno d’avventure (e di studi) Diego Carpitella, l’antropologa-regista-documentarista Maya Deren (la ritualità voodoo ad Haiti) e l’iconico antropologo Melville J. Herskovits (le stratificate eredità del popolo afroamericano, in particolare degli Yoruba: Africa Occidentale, zona centro-settentrionale).
“Dejj’arbole” non stonerebbe in un archivio tipo la Library of Congress, la Biblioteca del Congresso americana, cassaforte di innumerevoli tesori del folk mondiale. © RIPRODUZIONE RISERVATA – info@hinterlandweb